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I GIORNI PERDUTI

I fratelli Kazirra erano tanto diversi tra loro da non sembrare figli della stessa madre.
Giosuè, il più giovane, così alto e ben piazzato piaceva soprattutto alle donne. Sempre pronto a dare una mano, quand’era giorno di paga offriva da bere a tutti. Giosuè era sempre sorridente e dalla madre aveva ereditato le due fossette un po’ ironiche ai lati della bocca.
Ernst, invece, sembrava avercela con tutti. Più basso e magro del fratello aveva le spalle ossute e spioventi. Portava sempre occhiali scuri e una vecchia felpa consumata col cappuccio abbassato per nascondere la metà della faccia sfregiata da una malattia infantile. Aveva avuto una sola ragazza: Graziella, la figlia del salumaio, che aveva convinto il padre a prenderlo in bottega come garzone. “Finchè non trovo di meglio” aveva detto. Ma dopo anni, era ancora inchiodato a quel posto. I soldi erano l’ossessione di Ernst Kazirra. “I soldi sono tutto” ripeteva. “Chi ha soldi è padrone e gli altri strisciano”. Non spendeva mai un centesimo più del necessario e a volte neanche quello. “Sei uno stitico” gli diceva Giosuè. I fratelli Kazirra, sui soldi avevano idee diverse.
La madre aveva perso presto il marito e per tirar su i due figli si era consumata a pulire i pavimenti della Villa sontuosa in cima alla collina. I signori la pagavano poco, ma le permettevano di occupare una casetta in fondo al parco. “Dovete ringraziare i signori”, diceva sempre ai figli. Ma quando all’improvviso morì stroncata da un’infarto a quarantadue anni, l’amministratore spiegò ai fratelli Kazirra che non c’era fretta di liberare l'alloggio. Potevano restare fino alla fine del mese.
Quella sera Giosuè andò all’osteria a ubriacarsi. Il giorno dopo sparì. Ernst invece giurò a sé stesso che nessuno lo avrebbe mai più trattato in quel modo. Sparito Giosuè, gli restavano solo il vecchio Duk dagli occhi buoni, un mastino mezzo bastardo e Graziella. Si fece aiutare da lei a sistemarsi in una camera ammobiliata in città, nascondendo il cane alla padrona di casa. Graziella non era carina. Le mani erano grosse e tenere come le salsicce di suo padre e gli occhi azzurri erano cupi, affossati sotto la fronte prominente. Ernst non si sarebbe sognato mai di lasciarla, ma il giorno che Graziella gli confessò d’essere incinta, andò su tutte le furie. “Non è mio! Ma cosa vuoi da me?” le gridò “Lo capisci che non posso, non voglio avere palle al piede?” La ragazza se ne andò piangendo in silenzio. Affacciandosi alla finestra lui la vide sparire in fondo al viale sotto un’insistente pioggia autunnale. Ernst lasciò la sua camera la mattina seguente senza parlare con nessuno. Prima di andare legò al termosifone il cane che lo guardava docile riempire d’acqua una ciotola posata sul pavimento.

Quando ricomparve in città, qualche anno dopo, Ernst Kazirra era un altro. Appena arrivato cominciò a comprare tutto quello che era in vendita: condomini, uffici, negozi. E persone. In contanti e senza tirare sul prezzo. Da dove venissero tutti quei soldi nessuno sapeva. Tutti comunque avevano notato il rigonfio sotto la giacca dei due enormi gorilla che gli stavano sempre incollati addosso e quei ceffi in fila davanti al suo ufficio per baciargli le mani quando usciva.
In breve si seppe che anche la Villa sontuosa in cima alla collina era sua. Ai signori d’un tempo qualcuno aveva fatto un’offerta che non si può rifiutare. Appena ebbe le chiavi, Ernst decise di organizzare una festa elegante, con molte ragazze e  molta cocaina. I suoi nuovi amici e soci d’affari vennero tutti coi loro gorilla e le loro grosse auto dai vetri blindati parcheggiate nel piazzale.
Quando viveva con la madre e con Giosuè, Ernst Kazirra non era mai entrato nella Villa, salvo affacciarsi un paio di volte sul retro nelle cucine del seminterrato. Ora dalle finestre della nuova dimora poteva scorgere appena la misera casetta di un tempo, appena un punto lontano dall’altra parte del parco.
“Ci vorrà un anno per conoscere tutta la tua nuova casa, Ernst tesoro!” cinguettò Daisy, una delle ragazze, mentre gli si strusciava addosso come una gattina. La Villa era un edificio di tre piani in finto stile barocco, con una strana pianta a sette lati ed una corte interna. Contando il numero delle finestre su ogni facciata, calcolò che c’erano almeno quarantanove stanze per ogni piano.
Mancava meno di un’ora all’alba quando l’ultimo degli invitati se ne andò. Daisy dormiva nuda tra le lenzuola di seta blu del suo enorme letto a baldacchino, stuzzicante come una meringa. Mentre giù nel salone finivano di riordinare, Ernst decise di salire al terzo piano. Era quasi giunto in cima alla scala di servizio quando vide un uomo che non faceva parte della servitù. “Forse”, pensò, “è un invitato che si è perso.” Lo chiamò, ma quello sparì dietro l’angolo.
Si trovò finalmente al terzo piano in un lungo corridoio semibuio che girava tutto intorno all’edificio. Alla sua sinistra una teoria di alte finestre tutte uguali e squadrate aperte sul cortile interno. Di fronte ad ogni finestra tante porte identiche, alla stessa distanza una dall’altra, come ai piani di un vecchio albergo fin de siècle. Al muro, tra una porta e l’altra, una stampa debolmente illuminata da un’abat-jour in stile rococò. Ernst si rese conto con raccapriccio che le stampe erano tutte uguali. Poi contò: sette finestre, sette stampe alle pareti, sette porte uguali. Provò ad ogni porta: erano chiuse a chiave. Percorse il corridoio, girò l’angolo e si trovò in un corridoio identico, con sette finestre, sette stampe uguali, sette porte chiuse a chiave, in fondo al quale c’era l’uomo notato in cima alle scale con un grosso mazzo di chiavi in mano. Lo chiamò, ma quello senza rispondere sparì dietro l’angolo. Percorse i sette corridoi deserti lungo i sette lati dell’edificio. I suoi passi rimbombavano sulle vecchie assi scricchiolanti del parquet. Giunto in fondo vide che le ultime tre porte, a differenza delle altre, non erano chiuse a chiave.
Faticò non poco a riprendersi dalla sorpresa per quello che apparve oltre la prima porta. C’era dentro una strada d'autunno avvolta nella nebbia. Avanzò fendendo l’aria spessa quando un’improvvisa folata di vento lacerò la densa coltre lattiginosa lasciando intravedere una figura di donna con un fagotto tra le braccia. Era Graziella la sua fidanzata che se n'andava per sempre. E lui neppure la chiamava.
Tornato nel corridoio, vide che dalla seconda porta semichiusa trapelava una luce fredda di lampade al neon. Si ritrovò in una corsia d’ospedale con molti lamenti d’ammalati e sussurri di visitatori. In fondo alla sala, dietro un paravento, c’era Giosuè che stava male e lo aspettava. Sulle prime stentò a riconoscerlo. Invece delle due fossette ironiche al lato della bocca una smorfia amara ne deformava il volto. Pallido e magrissimo suo fratello giaceva sul letto prosciugato dalla malattia.  Lui che in mezz’ora da solo riusciva a scaricare un camion di frutta, ora non poteva stendere la debole mano per chiedere aiuto. Ma Ernst non c’era. Era in giro per i suoi affari.
Spinto da una forza misteriosa si affacciò alla terza porta. C’era la sua vecchia camera in affitto esattamente tale e quale l’aveva lasciata prima di andarsene. Legato ad un termosifone Duk il fedele mastino ridotto pelle e ossa.  Il cane lo attendeva da anni fissando la porta dalla quale il suo padrone era uscito. E lui non si sognava di tornare.
Turbato Ernst uscì nel corridoio semibuio. D’un tratto si accorse che in un angolo l’uomo con il mazzo di chiavi lo guardava enigmatico sovrastandolo dall’alto della sua statura.
“Chi sei?” chiese ”E cosa c’è nelle altre stanze chiuse a chiave?
“Non sai? Sono i giorni.” Rispose
“Che giorni?”
“I giorni tuoi.”
“I miei giorni?” chiese ancora Ernst.
“I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Ecco son tutti qui. E tu che ne hai fatto? Guardali: sono intatti. E adesso?”
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. L’uomo col mazzo di chiavi lo guardava immobile, come un giustiziere, proiettando la sua ombra sulla volta del corridoio. “Signore!” gridò Ernst Kazirra. “Mi ascolti. Mi lasci questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.” L’uomo fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile in fondo al corridoio, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Ernst singhiozzando cadde in ginocchio ai suoi piedi. Quando ebbe il coraggio di rialzare lo sguardo, il gigante era scomparso e le ultime tre porte del corridoio sigillate per sempre come tutte le altre. Le deboli luci tremolanti degli abat-jour si spensero ed Ernest si ritrovò riverso in un angolo con i suoi pensieri avvolto dall'oscurità. Trascorsero lentamente le ultime ombre della notte. Poi d’un tratto, trapelando dalle alte finestre, la luce dell’alba incendiò il corridoio.

Riscrittura del racconto omonimo di Dino Buzzati.

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TRADUZIONI. SHAKESPEARE SONETTO 73

Quello che in me vedi è il tempo dell'anno In cui ingiallite foglie pendono dai rami e cadono rabbrividendo incontro al gelo nude rovine ove già cantavano gli uccelli. Quello che in me vedi è il crepuscolo del giorno Che ad occidente svanisce nella sera e piano piano la notte nera inghiotte ombra di morte in cui tutto si placa. Quello che in me vedi è il brillar del fuoco che tra le ceneri di gioventù giace come sul letto di morte in cui ha fine oggi consunta da ciò che la nutriva un dì. Questo di me tu vedi che l'amore tuo accresce Perché meglio tu possa amare chi lascerai tra poco. That time of year thou mayst in me behold,  When yellow leaves, or none, or few do hang  Upon those boughs which shake against the cold,  Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.  In me thou seest the twilight of such day,  As after sunset fadeth in the west, Which by and by black night doth take away, Death’s second self that seals up all in rest.  In me thou

Aquila di Lord Alfred Tennyson

Con artigli deformi la rupe afferra; Intima del sole su desolata terra ella si leva e l'azzurro mondo la rinserra. A lei s'inchina la superficie increspata; Dai suoi montani spalti ella scruta Ed è come la folgore precipitata. He clasps the crag with crooked hands; Close to the sun in lonely lands, Ringed with the azure world, he stands. The wrinkled sea beneath him crawls; He watches from his mountain walls, And like a thunderbolt he falls. ©trad.Bruno Martellone- Treviso, 3/3/2012

Shakespeare - Sonetto 35 (traduzione)

Per ciò che hai fatto non ti crucciare Le rose hanno spine, fango le fonti Eclissi e nubi coprono la luna e il sole Nella più dolce rosa un verme vive. Sbagliano tutti ma fu mio errore  difendere te frodando me stesso  Ora per scagionarti vado in rovina giustificando una colpa senza scuse. E poiché sono complice del tuo peccato sono ad un tempo tuo contraddittore E tuo avvocato e di me stesso accusatore E tanto in me duellano odio e amore Che contro la mia volontà faccio il palo alla dolce ladra che spietata mi deruba.