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LA STANZA DELLE CENERI

Al secondo piano della Torre dell’Orologio fumavamo tutti tranne Carlotta. Quando fece il suo ingresso nello studio legale Nardin sembrava una semplice dattilografa, pallida e ossequiente. Ma era fuoco che cova sotto la cenere, brace coperta come si dice dalle mie parti.
- Se dà fastidio spengo il sigaro, l'aveva accolta comprensivo zio Alberto, titolare dello studio.
- Màriavergine no, non si disturbatevi per me, aveva risposto.
Due ore dopo si era chiusa in bagno con gli occhi arrossati e una tosse disperata. Alla fine zio Alberto la mandò a casa bestemmiando e sbranando il suo Pedroni.
Pensammo tutti che non sarebbe durata. Il giorno seguente, invece, dopo una strana telefonata, lo zio ordinò che d’ora in poi, lui compreso, si poteva fumare solo in biblioteca.
In quel posto Carlotta, che era la prima ad arrivare studio, entrava solo al mattino presto. Spalancava le finestre e trattenendo il respiro svuotava il grosso posacenere di vetro che riponeva sul tavolo ingombro di riviste e repertori. Per questo quotidiano rito di purificazione la biblioteca diventò la “stanza delle ceneri”.
Una sera mentre fumavo, Carlotta mi avvisò che Goffredo P. era al telefono.
- Goffredo chi? chiesi.
- Lo scrittore. Màriavergine quello famoso!
- L'avvocato Nardin è fuori città, sono il nipote, dissi al telefono.
Una voce rapida e sottile, appena velata di raucedine, accennò ad una lite tra vicini della quale lo zio Alberto era già al corrente. Chiedeva un incontro urgente per esaminare gli sviluppi del caso. Ci accordammo per sabato verso sera alla libreria Beccogiallo, anche se dentro di me non ero entusiasta per la scelta del luogo.
- Sabato sono alla presentazione di un libro, dissi a Carlotta che durante la telefonata era rimasta come sospesa a mezz’aria.
Anche il commesso del Beccogiallo, pareva in trance quando entrai nella libreria per quello strano appuntamento. In fondo all’ampio locale foderato di libri, il famoso scrittore sedeva attorniato da una piccola folla di giovani, soprattutto ragazze. Una donna molto bella con grandi occhiali fumées si girò verso di me, mentre entravo con la sigaretta accesa. Nessun altro fumava e io mi sentii fuori posto come se l’avessi fatto in chiesa.
Non l'avevo mai visto. Sapevo solo che viveva in una casetta di contadini oltre l'argine del Piave e forse per questo me l'ero immaginato un tipo eccentrico. Era invece un cinquantenne in giacca e cravatta, senza alcuna stranezza apparente. Aveva un’aria disincantata, a metà tra il saggio conoscitore del mondo e il seduttore infastidito dal suo stesso fascino. I tratti del viso erano marcati, le labbra sottili, gli occhi cerchiati di moderata stanchezza e sul mento aveva una fossetta sbarazzina.
Parlava con chiarezza disarmante e al tempo stesso pudica dell’amore nella letteratura e di altre cose per me insolite. La voce un po’ arrochita e pacata, procedendo si faceva acuta e prendeva slancio e velocità. Poi d’improvviso s’interrompeva, come se, inseguendo i suoi pensieri in fuga, fosse bruscamente frenato dal dubbio.
Raccontava la favola ingenua di Dafni e Cloe, narrata duemila anni fa da uno scrittore greco di cui si sa solo il nome. Parlava a dei ventenni dell'amore di due semplici ragazzi con tono intelligente e brillante, ma senza vanità né pretesa d'insegnare se non ciò che la vita stessa insegna. S'incendiò solo al fine, rispondendo ad alcune domande dei giovani.
- L’amore, insomma, o si fa o si racconta, diceva. - Sarebbe quasi impossibile per me oggi scrivere dell’amore di una donna o d’un uomo della mia stessa età. Parlare dei sentimenti allo scrittore costa fatica e qualche rinuncia verso sé stesso. L’autore di Dafni e Cloe ha una frase meravigliosa per dire questo: ‘Gli dei ci diedero da vivere casti per raccontare l’amore degli altri’.
Finita la presentazione, mi resi conto che Goffredo P. fissava ciò che tenevo in mano.
- Sono Gauloises quelle? mi chiese. Gli allungai il pacchetto perché ne prendesse una. Aspirò vorace mentre alle prime nuvolette di fumo i suoi occhi si facevano piccoli come quelli d’un cinese.
- Goffredo! strillò alle mie spalle la donna con gli occhiali scuri.
- Perdìo, lasciami in pace!
- Una sigaretta non si nega nemmeno al condannato a morte, dissi complice.
Mi guardò sorpreso. Ne approfittai per presentarmi e così, per rinsaldare quell’alleanza appena nata, gli raccontai di Carlotta e della stanza delle ceneri.
- Dunque lei è il nipote di Nardin, disse. Poi sottovoce: - Me la mostri, andiamo.
Giunti al secondo piano della Torre, volle annusare ogni angolo di quell’ambiente per lui inconsueto. Fumando una dopo l’altra le mie sigarette finì in biblioteca. Provò la seggiola dietro il tavolo. Accarezzò il dorso in pelle d’un vecchio repertorio di giurisprudenza.
- Ho una richiesta che la sorprenderà, disse - Ma voglio che resti un segreto.
Gli serviva quel posto per fumare e lavorare. Solo due mesi, aggiunse.
- A casa non posso, disse accendendo un'altra delle mie gauloises - Senza questo veleno non posso lavorare.
L’idea mi sembrò strana. Obiettai che uno studio legale era un luogo troppo trafficato per uno scrittore. Replicò che anzi era quella la solitudine che cercava.
- Un posto per restare da solo, disse - ma dove so che fuori della porta scorre la vita delle persone.
Promisi di parlarne allo zio. Prima di salutarci, fumammo l’ultima gauloise in silenzio ognuno affacciato ad una finestra. Guardavamo la gente in piazza che usciva dai negozi e si incontrava nei caffè per l’aperitivo.
Fu così che il famoso scrittore Goffredo P., quasi ogni giorno per due mesi, frequentò lo studio Nardin. Arrivava al mattino in anticipo su tutti, facendosi aprire da Carlotta. C’era anzi chi diceva a volte d’averlo visto aspettare seduto a un tavolino del caffè sotto la torre, prima ancora che i camerieri alzassero la serranda. Sono sicuro che amava in modo particolare quell’ora, quando in giro non c’è nessuno e la luce dorata del mattino conquista lentamente prima un lato, poi tutta la piazza.
Si chiudeva nella stanza delle ceneri con la sua Olivetti portatile e lavorava qualche ora senza sosta. Lo sentivamo battere ossessivamente sui tasti, con pause di qualche minuto. Nessuno osava entrare e chi voleva fumare dovette adattarsi a scendere in piazza. Se ne andava sempre all’ora di pranzo, senza salutare e chiudendo la stanza con l’unica chiave esistente che aveva preteso per sé.
L’ultima volta lasciò detto alla Carlotta che andava a Roma per qualche giorno. Praticamente aveva finito il suo lavoro e al ritorno avrebbe ritirato ogni cosa e restituita la chiave. E invece allo studio non venne più. Inutilmente zio Alberto gli scrisse, perché al telefono nessuno rispondeva. Una sera, per caso, incontrai per le vie del centro la giovane donna dagli occhiali scuri che era la sua compagna.
- Goffredo è stato molto male, disse. - E’ a Roma. Da poco è uscito dall’ospedale.
- Che ne facciamo delle sue cose? chiesi. - Ha lui la chiave della stanza.
Mi guardò come se non sapesse di cosa stavo parlando.
Un fabbro forzò la serratura. Sul tavolo c’era un accendino, una stecca di sigarette e una cartella con molti fogli dattiloscritti. Lo zio Alberto mise tutto in un plico con data e nome del cliente che chiuse in cassaforte. La stanza delle ceneri tornò il luogo del nostro vizio. Passarono anni prima che qualcuno per conto dello scrittore venisse a ritirare le carte dimenticate. Nella fretta lasciò l’accendino con le sigarette. Poco dopo i giornali scrissero che Goffredo P. era morto a soli cinquantasette anni. Mi feci prestare da Carlotta una raccolta dei suoi racconti intitolata “Sillabari”. Una sera, nella stanza delle ceneri, restai a leggere fino a tardi, fumando una dopo l’altra le sigarette che lo scrittore aveva dimenticato. I racconti mi piacquero moltissimo, ma non so dire perché. Anche le sigarette.
Oggi compio cinquant’anni. Stamattina al caffè sotto lo studio ho dato un’occhiata al giornale e ho letto del libro ritrovato di Goffredo P., pubblicato dieci anni dopo la morte. Ho cominciato a leggerlo in libreria saltando la prefazione. E’ il racconto di un cinquantenne diviso tra una donna della sua età ed un'altra molto più giovane. La donna matura s’innamora d’un ragazzo che la usa solo per il sesso e alla fine viene brutalmente uccisa in circostanze misteriose. Una storia di sangue e d'amore malato. A volte la scrittura è torbida, faticosa, ma ad ogni pagina mi risucchia come in un gorgo. Ritrovo a un certo punto quella frase: 'Gli dei ci diedero da vivere casti per raccontare l’amore degli altri.' Pensavo d’averla dimenticata e forse la prima volta non l’avevo nemmeno capita.
Ho letto anche la prefazione e ho scoperto che Goffredo P. ha scritto il romanzo a cinquant’anni e poi ha avuto un infarto. Per anni qualcosa di troppo personale gli ha impedito di pubblicare il manoscritto, ma anche di distruggerlo. Poco prima di morire l’ha riletto, forse voleva rivederlo per darlo alle stampe. Coincidenze? Chissà. E' difficile non pensare che fosse lo stesso plico custodito per anni tra le carte dello studio Nardin.
L'età di Goffredo P., quando scriveva nella stanza delle ceneri, è la stessa che oggi è la mia. E anche tra scrittori e avvocati trovi qualcosa che li rende simili. Ad esempio entrambi usano le parole per mestiere. Entrambi si occupano della vita degli altri. Quando hanno a che fare con la propria, però, non sempre sono altrettanto capaci.
Sono passati più di dieci anni. La stanza delle ceneri non è cambiata. Accendo una sigaretta e mi affaccio al balcone. Guardo la gente giù in piazza che a quest'ora esce dai negozi e s’incontra nei caffè per l’aperitivo.



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