Da un po’ di tempo le notti di Lisander erano turbate da un incubo
ricorrente. Sognava d’essersi ritirato assai presto la sera, ma
dopo un po’ di ritrovarsi sveglio fuori dal letto nel corridoio di
casa. Avrebbe potuto facilmente accendere la luce, ma preferiva
l’oscurità e anche così si sentiva abbastanza sicuro. Sotto la
pianta dei piedi riconosceva il disegno consueto delle mattonelle.
Cinque sei sette passi ed ecco la porta del bagno, al solito posto.
All’improvviso avvertiva che non era più buio come prima. Ora gli
sembrava che un’intensa luce provenisse dall’alto, come se si
trovasse in un luogo aperto e illuminato. Forse una piazza che gli
era ben nota della sua città. Lisander percepiva benissimo la luce
artificiale dei lampioni, anche se teneva sempre gli occhi chiusi per
paura di guardare. L’aria fresca e umida sul viso gli confermava
che non era nel bagno di casa. Non vedeva nulla, ma riconosceva i
passi frettolosi della gente che rincasa prima di cena, i rumori e i
rumori consueti di quella piazza.
Era il luogo della città dove da bambino passava rincasando la sera
con la mamma. Era l’ora in cui tutti sanno di dover tornare al
proprio rifugio domestico. Egli continuava tuttavia a girare
dolorosamente su sé stesso tenendo gli occhi chiusi, senza decidere
la direzione. Benché uno sgradevole senso di vertigine gli facesse
temere a ogni passo un inciampo, un ostacolo probabilmente fatale,
Lisander non voleva guardare.
Un varco certamente c’era. Forse più di uno e finanche più vicino
di quanto sperasse. Ma dove? Essendosi privato deliberatamente della
vista, quel luogo era per lui senza scampo. Temeva d’incontrare
qualcuno che lo riconoscesse richiamandolo alle sue responsabilità.
In fondo un tempo la sua piccola fama brillava, anche se ora viveva
nascosto nella sua stessa ombra. Prima o poi avrebbero scoperto la
sua volontaria cecità e lo avrebbero accusato. Sentiva la minaccia
di quella catastrofe tanto più reale, quanto più incerta e buia era
la coscienza della sua colpa. Forse sarebbe bastato guardare, ma per
strano che fosse, Lisander non poteva rinunciare alla minaccia della
catastrofe.
“… te credo onesto e credo
disleale...”*, tuonò all’improvviso una voce.
Lisander guardò. Un terribile Otello bronzeo apparve innanzi a lui
roteando corrucciato gli occhi dal fondo dell’inferno. Quella
grottesca figura lo sovrastava assisa su un piedistallo di marmo
proprio al limite della piazza. Gli sembrò in quell’istante di
morire e allo stesso tempo vide che la via d’uscita era aperta.
Coppie di fidanzati tenendosi per mano attraversavano in diagonale
la piazza, accelerando il passo. La campana della torre civica suonò
sette rintocchi. Un autobus frenò di colpo e ripartì quasi subito
cigolando. Folate di vento gonfiavano rumorosamente gli stendardi
appesi alle finestre del palazzo alle spalle di Lisander. Un gruppo
di giovani si avvicinava vociando. Giunti a poca distanza tacquero,
accorgendosi del suo sguardo. Solo per un attimo. Poi proseguirono in
silenzio senza attardarsi.
*Otello, atto II, scena V (Musica G. Verdi; libretto C. Boito)