Nella casa in vicolo Pescatori dove ho abitato dalla nascita
all'età di due anni adesso c'è un'agenzia delle assicurazioni. Passandoci
davanti non ho mai avuto voglia di entrare né curiosità di sapere com'è oggi.
Non conservo ricordi precisi di com'era l'appartamento in cui vivevo coi miei
genitori. Ero troppo piccolo per ricordare adesso il numero o la disposizione
delle stanze o l'arredo della mia cameretta.
A volte però mi sembra
che affiorino strani suoni oltre la parete della memoria. Forse una canzone di
Rita Pavone alla radio su in alto (ovviamente, perché ero molto più basso che
adesso). Forse il ronzio del proiettore nel buio nel cinema sopra il quale si
trovava la mia cameretta. Scoppi lontani e voci di cui non capivo la
provenienza. Probabilmente l'eco dei films nella sala sottostante.
Queste confuse memorie
auditive sono le prime della mia infanzia. Assolutamente confuse ed
inconsapevoli, ma sicuramente più autentiche del mio cosiddetto “primo
ricordo”. Esso riguarda un fatto davvero accadutomi in quella casa, ma che non
appartiene del tutto alla mia memoria, quanto piuttosto ai racconti tante volte
ripetuti in famiglia.
In realtà non credo che
sia possibile avere ricordi propri della primissima infanzia. La coscienza
individuale del bambino ci mette del tempo per formarsi e all'inizio le
sensazioni e volontà si confondono con quelle degli adulti da cui dipende,
talmente vicini da non essere “altro”, ma il tramite necessario del suo
rapporto con il mondo. Per questo non possiamo essere del tutto sicuri che
anche la memoria dei fatti della nostra vita di allora, sia davvero nostra e
non piuttosto il riflesso di ciò che ci viene tramandato da altri. Così è il
mio primo ricordo ufficiale: rievocazione di qualcosa che ho vissuto in parte,
in parte mi è stato comunicato.
In quel tempo mia madre
lavorava e a prendersi cura della casa e di me (mio fratello era in arrivo) era
stata presa a servizio l'Andreina, una ragazza di famiglia contadina che, come
usava allora, viveva con noi.
L'Andreina quel giorno
aveva passato la lucidatrice sul pavimento. Quell'enorme mostro di metallo
pesantissimo per un moscerino di due anni qual ero, era stata spenta, ma il
cavo elettrico restava attaccato alla presa. La ragazza si era distratta un
attimo. Forse si era affacciata al balcone, forse era scesa nel cortiletto
sotto casa a fare l'amore col garzone della vicina macelleria.
Non so come, ma a un
certo punto la lucidatrice si è mossa e le spazzole rotanti hanno cominciato a
girare girare e quel mostro di ferro si è messo a girare girare intorno. Come
un serpente il cavo elettrico, girando girando, mi ha avvolto tra le sue spire
e forse mi avrebbe strangolato se non fosse intervenuta in tempo l'Andreina.
La mia memoria è confusa,
tranne su un punto: la ragazza strillava. Fino a quell'urlo di terrore e di
rimprovero (forse perfino adesso) nessuna coscienza del pericolo.
E' da allora, io credo,
che gioco e rischio si sono intrecciati irrimediabilmente nella mia vita. Altre
volte mi è capitato di sfiorare l'irreparabile schivandolo per un soffio senza
quasi averne consapevolezza, se non quando il pericolo era già alle mie spalle.
Al rischio non ho mai associato la paura. Casomai, dopo, uno strano senso di
colpa per il turbamento di altri intorno a me.
Le spazzole rotanti mi divertivano, la danza della lucidatrice
attirava la mia curiosità. Il grido me
lo ricordo bene.