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LA STANZA DELLE CENERI

Al secondo piano della Torre dell’Orologio fumavamo tutti tranne la Carlotta. L’ultima assunta dattilografa tuttofare dello studio legale Nardin si presentò il primo giorno pallida e ossequiente. In realtà era – come si dice dalle mie parti - una bronsa coverta: fuoco che cova sotto le ceneri pronto a divampare quando meno te l’aspetti. Nemmeno due ore erano passate dal suo arrivo che già si era chiusa in bagno tossendo disperatamente. A chi che le chiedeva se avesse bisogno di qualcosa, rispondeva da dietro la porta mariavèrgine non facessero caso a lei, ora passava tutto. Alla fine lo zio Alberto, titolare dello studio, la rimandò a casa masticando il suo Pedroni puzzolente. Pensai che la Carlotta non sarebbe durata. Il giorno seguente, però, dopo una strana telefonata, lo zio ordinò che d’ora in poi, lui compreso, si poteva fumare solo in biblioteca, dove lei, la povera Carlotta, non poteva entrare. In realtà tutte le mattine, prestissimo, appena arrivata in studio lei ci entrava eccome, in biblioteca. Prima che arrivassero tutti gli altri, lei spalancava le finestre, trattenendo il respiro e rovesciava nella pattumiera il contenuto di un grosso portacenere di cristallo riponendolo poi sul tavolo ingombro di riviste e repertori. Nessuno la vedeva, ma sapevamo tutti che era lei. Per questo rito quotidiano il luogo venne ribattezzato la “stanza delle ceneri”.

Una sera mentre fumavo in biblioteca, la Carlotta mi avvisò che Goffredo P. era al telefono.
“Goffredo chi?” chiesi.
“Il famoso scrittore” rispose.
“L’avvocato Nardin è fuori città per qualche giorno” dissi all’uomo famoso che attendeva all’altro capo del telefono. “Sono il nipote, può dire a me, se vuole.”
Una voce rapida e sottile, appena velata di raucedine, rispose accennando ad una lite tra vicini della quale lo zio Alberto era già al corrente. Mi offrii di incontrarci per esaminare gli sviluppi del caso .
“Sabato pomeriggio sarebbe l’ideale”, disse. “Sarò in città per presentare un libro alla libreria del Beccogiallo. Conosce?”.
Risposi che per me andava bene, anche se in realtà ero poco entusiasta di lavorare anche nell’unico pomeriggio libero della settimana.
“Dieci minuti basteranno” disse senza particolare riconoscenza nella voce.
La Carlotta era rimasta come sospesa a mezz’aria durante la telefonata. Non capivo perché.
Anche il commesso del Beccogiallo, quel sabato pomeriggio, sembrava in trance quando entrai nella libreria. In fondo all’ampio locale foderato di libri, il famoso scrittore sedeva attorniato da una piccola folla di giovani, soprattutto ragazze. Una donna molto bella con grandi occhiali fumées si girò verso di me, mentre entravo con la sigaretta accesa. Nessun altro fumava e io mi sentii fuori posto come se l’avessi fatto in chiesa.
Tutti in città sapevano che Goffredo P. si era sistemato da qualche tempo in una casetta un po’ fuori città, quasi sul letto del fiume e forse per questo me l'ero immaginato un tipo eccentrico. Era invece un cinquantenne elegante in giacca e cravatta, senza alcuna stranezza apparente. Aveva un’aria disincantata, a metà tra il saggio conoscitore del mondo e il seduttore infastidito dal suo stesso fascino. I tratti del viso erano marcati, le labbra sottili, gli occhi cerchiati di moderata stanchezza e sul mento aveva una fossetta sbarazzina.
Parlava con chiarezza disarmante e al tempo stesso pudica dell’amore nella letteratura e di altre cose per me insolite. La voce era un po’ arrochita e pacata, ma procedendo si faceva acuta prendendo slancio e velocità. Poi d’improvviso s’interrompeva, come se inseguendo i suoi pensieri in fuga fosse bruscamente frenato dal dubbio.
Raccontava ad un pubblico di ventenni la favola ingenua dell'amore di due semplici ragazzi, Dafni e Cloe, narrata venti secoli fa da uno scrittore greco di cui si sa solo il nome. Parlava con tono intelligente e brillante, ma senza vanità né pretesa di insegnare se non ciò che la vita stessa insegna. S'incendiò solo al fine, rispondendo ad alcune domande dei giovani.
“L’amore, insomma, o si fa o si racconta” diceva. “Sarebbe quasi impossibile per me oggi scrivere dell’amore di una donna o d’un uomo della mia stessa età. Parlare dei sentimenti allo scrittore costa fatica e qualche rinuncia verso sé stesso. L’autore di Dafni e Cloe ha una frase meravigliosa per dire questo: ‘Gli dei ci diedero da vivere casti per raccontare l’amore degli altri’.”
Finita la presentazione, mi resi conto che Goffredo P. stava fissando ciò che tenevo in mano. Ricordo il suo sguardo smanioso mentre si avvicinava.
“Sono Gauloises quelle?” mi chiese. Allungai il pacchetto perché ne prendesse una. Aspirò vorace mentre alle prime nuvolette di fumo i suoi occhi si facevano piccoli come quelli d’un cinese.
“Goffredo!” strillò alle mie spalle la donna con gli occhiali scuri. “Ma perdio, lasciami in pace!” disse irritato.
“Una sigaretta non si nega nemmeno al condannato a morte” dissi complice. Mi guardò con sorpresa. Ne approfittai per presentarmi e così, tanto per rinsaldare quell’alleanza appena nata, gli raccontai di Carlotta e della stanza delle ceneri.
“Dunque è lei il nipote di Nardin” disse. Poi sottovoce: “Andiamo, mi faccia vedere.”
Giunti al secondo piano della Torre, volle annusare curioso ogni angolo di quell’ambiente per lui inconsueto. Fumando una dopo l’altra le mie sigarette finì nella stanza delle ceneri. Provò la seggiola dietro il tavolo. Accarezzò il dorso in pelle d’un vecchio repertorio di giurisprudenza.
“Ho una richiesta che la sorprenderà” disse, “ma che resti un segreto.” Gli serviva per due mesi quel posto per fumare e lavorare. “A casa non posso” aggiunse, “ma io senza questo veleno non posso lavorare.”
L’idea in effetti mi sembrò strana. Azzardai che uno studio legale non mi sembrava un luogo adatto per uno scrittore. Replicò che anzi era quella la solitudine che cercava.
“Un posto dove restare da solo” disse, “ma dove so che la vita delle persone scorre appena di là della porta.”
Promisi di parlarne allo zio. Prima di salutarci, fumammo l’ultima gauloise in silenzio ognuno affacciato ad una finestra, guardando la gente in piazza uscire dai negozi e incontrarsi nei caffè per l’aperitivo.

Fu così che il famoso scrittore Goffredo P., per due mesi, frequentò quasi ogni giorno lo studio Nardin. Arrivava al mattino in anticipo su tutti, facendosi aprire dalla Carlotta. C’era anzi chi diceva a volte d’averlo visto prestissimo che aspettava seduto a un tavolino del caffè sotto la torre, prima ancora che i camerieri alzassero la serranda. Sono sicuro che amava in modo particolare quell’ora, quando in giro non c’è nessuno e la luce dorata del mattino conquista lentamente prima un lato, poi tutta la piazza.
Si chiudeva nella stanza delle ceneri con la sua Olivetti portatile e lavorava qualche ora senza sosta. Lo sentivamo battere ossessivamente sui tasti, con pause di qualche minuto. Nessuno osava entrare e chi voleva fumare dovette adattarsi a scendere in piazza. Se ne andava sempre all’ora di pranzo, senza salutare e chiudendo la stanza con l’unica chiave esistente che aveva preteso per sé.
L’ultima volta lasciò detto alla Carlotta che andava a Roma per qualche giorno. Praticamente aveva finito il suo lavoro e al ritorno avrebbe ritirato ogni cosa e restituita la chiave. E invece allo studio non venne più. Inutilmente zio Alberto gli scrisse, perché al telefono nessuno rispondeva. Una sera, per caso, incontrai per le vie del centro la giovane donna dagli occhiali fumées che era la sua compagna.
“Goffredo è stato molto male” disse “E’ a Roma. Da poco è uscito dall’ospedale.”
“Che ne facciamo delle sue cose?” chiesi, “senza la chiave nella stanza non si può entrare.”
Mi guardò come se non sapesse di cosa stavo parlando.
Un fabbro forzò la serratura. Sul tavolo c’era un accendino, una stecca di sigarette e una cartella con molti fogli dattiloscritti. Lo zio Alberto mise tutto in un plico con data e nome del cliente che chiuse in cassaforte. La stanza delle ceneri tornò il luogo del nostro vizio sempre più osteggiato dalla società civile. Passarono anni prima che qualcuno per conto dello scrittore passasse a ritirare le carte di cui c’eravamo dimenticati. Nella fretta rimase l’accendisigari con le sigarette. Poco dopo i giornali scrissero che Goffredo P. era morto a soli cinquantasette anni. Mi feci prestare dalla Carlotta  una raccolta di racconti intitolata “Sillabari”. Una sera, nella stanza delle ceneri, restai a leggere fino a tardi, fumando una dopo l’altra le sigarette che lo scrittore aveva dimenticato col suo accendino. Mi piacquero moltissimo, ma non so dire perché.

Oggi compio cinquant’anni. Stamattina al caffè della piazza sotto lo studio ho dato un’occhiata al giornale e ho letto del nuovo libro di Goffredo P., pubblicato dieci anni dopo la morte. Ho cominciato a leggerlo in libreria saltando la prefazione. E’ il racconto di un cinquantenne diviso tra una donna della sua età ed un'altra molto più giovane. La donna matura s’innamora d’un ragazzo che la usa solo per il sesso e alla fine viene brutalmente uccisa in circostanze misteriose. Una storia di sangue e d'amore malato. A volte la scrittura è torbida, faticosa, ma ad ogni pagina mi risucchia come in un gorgo. Ritrovo a un certo punto quella frase: 'Gli dei ci diedero da vivere casti per raccontare l’amore degli altri.' Pensavo d’averla dimenticata e forse la prima volta non l’avevo nemmeno capita.
Nella prefazione si spiega che Goffredo P. ha scritto il romanzo di getto a cinquant’anni e poi ha avuto un infarto. Per anni qualcosa di troppo personale gli ha impedito di pubblicare il manoscritto, ma anche di distruggerlo. Poco prima di morire l’ha riletto, forse voleva revisionarlo. Coincidenze? Chissà. E' difficile non pensare che fosse lo stesso plico custodito per anni tra le carte dello studio Nardin. Quando Goffredo P. scriveva nella stanza delle ceneri aveva l’età che oggi è la mia. E anche tra scrittori e avvocati trovi qualcosa che li rende simili. Ad esempio entrambi per mestiere usano le parole. Entrambi si occupano della vita degli altri. Quando hanno a che fare con la propria, pero, non sono sempre altrettanto capaci.
Sono passati più di dieci anni, ma mi sembra ieri che, proprio da questo balcone, fumavamo insieme io e lui, mentre la gente giù in piazza, usciva dai negozi e s’incontrava nei caffè per l’aperitivo.



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