Care compagne, cari compagni,
Oggi non sono riuscito a pensare ad altro. Ho detto a Carmen che avrei scritto qualcosa, ma non mi è facile. Paolo Ravasin è morto l’8 febbraio 2014 di SLA. Domenica sarà passato già un anno. Il tempo vola, ci siamo detti oggi con Filomena Gallo. Il fatto è che lui è ancora con noi, suoi compagni di Veneto Radicale.
Oggi non sono riuscito a pensare ad altro. Ho detto a Carmen che avrei scritto qualcosa, ma non mi è facile. Paolo Ravasin è morto l’8 febbraio 2014 di SLA. Domenica sarà passato già un anno. Il tempo vola, ci siamo detti oggi con Filomena Gallo. Il fatto è che lui è ancora con noi, suoi compagni di Veneto Radicale.
Tutti
noi abbiamo un ricordo di Paolo. Più di tutti Alberto, suo fratello
e nostro compagno. Subito dopo viene Raffaele Ferraro, che è stato il primo
suo compagno di lotta radicale.
Anch’io
ho il mio. Nella stanza d’ospedale che per anni è stata la
casa di Paolo, proprio sulla parete di fronte al suo letto, c’erano
le foto della sua vita. Tra queste, accanto ai ritratti dei figli e
degli altri suoi cari, ce n’era una con lui da ragazzo, quando giocava a calcio ed aveva tutta la sua forza di ventenne. Aveva la
mia stessa età (sono anch’io del 60) e anch’io giocavo al
pallone a vent’anni. La prima volta, vedendo la foto, mi sono
detto che probabilmente l’ho incontrato in campo, un
secolo fa. Anzi, mi pare perfino di ricordarlo. Uno molto duro nei
contrasti, con un sacco di fiato. Uno di quelli che in campo non si
riposano nemmeno un minuto. Correva sempre, dall’inizio della
partita fino al fischio finale.
Chi
lo ha conosciuto malato di SLA, immobile a letto per 15 anni incatenato ad un
respiratore artificiale, non lo avrebbe riconosciuto nel giovanotto
della foto, pieno di capelli e con un’espressione spavalda. Lo sguardo di chi
fa i fatti e non ha tempo da perdere con le parole. Solo una cosa la
malattia, che gli aveva devastato il corpo, non era riuscita a
cambiare: gli occhi che aveva chiari e vivissimi e che erano rimasti uguali a quelli della
foto.
Mi
sono sempre chiesto come facesse a sopportare tutti i giorni la vista
davanti a sé di quello che era stato “prima”. Paolo Ravasin era
un uomo molto malato (e non voglio aggiungere particolari, più di
tutti tra noi lo sanno bene Alberto e Raffo). Ma non era un uomo
comune. Per accettare tanta sofferenza e mantenere integra la sua
dignità, doveva amare tanto la vita. E la libertà, perché
senza la libertà la vita non è degna. Amava a tal punto la
vita da non voler rinunciare nemmeno ad una goccia della sua libertà.
Per
essere uomo libero in una condizione come quella bisogna essere un
combattente. Uno che non fa chiacchiere, ma i fatti. Uno che per
tutta la vita aveva parlato sempre poco. Ma quando ha capito che - vedi il destino - gli
restava solo quello, le parole, allora ha cominciato a parlare. Con quel miracoloso filo di voce che la tracheotomia gli aveva lasciato, tra un ansimo ed un
tonfo del polmone artificiale, ha usato l'unica cosa che aveva, le parole.
Non per chiacchierare, ma per farsi sentire. E Paolo ha saputo farsi
sentire. Forte e chiaro.
Paolo
Ravasin non era nato militante radicale. Lo era diventato
attraversando l’esperienza estrema di una malattia terribile che fa
morire lentamente, spegnendo ogni giorno le illusioni, ponendo il
malato di fronte alla verità senza fronzoli, senza ideologie
consolatorie.
Attraversando
l’esperienza della malattia e della lotta per la sua libertà di
malato, aveva scoperto la solidarietà con gli altri malati,
l’Associazione Coscioni, la lotta radicale. Dal corpo del
malato al cuore della politica. Come Coscioni. Come Welby.
Noi
compagni radicali veneti, sapevamo che la malattia di Paolo prima o
poi ce lo avrebbe portato via. Ma per noi la partita non è ancora
finita. Da qualche parte lui continua ad essere il “capitano”
titolare della squadra. E Alessandro Pomes credo sia il primo a
saperlo, ora che lo ha sostituito come presidente di VenetoRadicale.
Perché quando il titolare non può continuare la partita, bisogna
che qualcuno lo sostituisca fino al fischio finale.
Paolo
Ravasin è ancora tra di noi. Le ragioni della sua battaglia non sono
finite. La partita non è finita. Ci sono 70mila firme di cittadini
sulla proposta di legge di iniziativa popolare promosse
dall’Associazione Coscioni per il testamento biologico, l’eutanasia
ed il diritto a decidere della propria vita fino alla fine. Sono state
raccolte anche grazie a lui. Non servono chiacchiere. Serve che
quella proposta diventi legge.