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La mia cameretta

«Quando dormi non ti devi scoprire, sennò prendi freddo. E se ti viene la febbre alta, possiamo anche morire».
Diceva proprio così mia madre: non «puoi», ma «possiamo morire». Come se dipendesse da me, se anche lei e gli altri di casa morivano. Come se morire da soli non fosse permesso. Per questo dovevo stare attento a non prendere freddo. Che egoista sarei stato a farmi venire la febbre e far morire tutti quanti!
Mi diceva così quando mi metteva a letto nella mia cameretta. Su quel letto ho avuto tante volte la febbre. Una volta la scarlattina perfino, forse rischiando davvero di morire. Però, per fortuna di tutti, non sono mai morto. 
I miei di famiglia, invece, sono morti tutti quanti. Non credo sia stata colpa mia. O almeno lo spero.
Su quel letto ho dormito fino quasi ai quarant’anni. Poi me ne sono andato dalla casa dei miei genitori. Sono tornato quindici anni dopo, quando erano morti tutti, ma su quel letto non ci ho più dormito, preferendone uno nuovo “alla francese”, comprato da me. Ormai mi ero abituato ad altri giacigli, molto più spaziosi e da adulto. E poi sul mio letto di ragazzo si era trasferita mia madre e lì l’avevo vista agonizzare prima che la trasportassero in ospedale, quando non c’era più nulla da fare.
Mia madre si era trasferita nella mia cameretta quando ancora si reggeva in piedi, lasciando a mio padre infermo, tutto il letto matrimoniale, condiviso per quasi cinquant’anni. Aveva riempito l’armadio e le mensole delle sue cose. Usava le mie lenzuola, le mie coperte, il mio cuscino. La mamma non ragionava più negli ultimi tempi, ma sono sicuro che nel mio letto ci stava bene. In quel modo era come se fosse sempre vicino a me.
La mia cameretta era più bella di quella dei miei genitori. La finestra si affacciava su un albicocco, meravigliosamente fiorito in primavera e d’estate pieno di frutta. Bastava allungare la mano al mattino, per farne abbondante colazione. In casa tutti invidiavano questa cosa e qualche volta, lo so, entravano di nascosto nella mia cameretta. 
Vicino al letto, da un lato della stanza c’era la scrivania ed una piccola libreria. Sulla parete una stampa di arlecchino ed un’altra più preziosa con due figure nude molto eleganti, due bellissimi corpi danzanti. L’avevo trovata in soffitta tra le cose di mio padre e mi era piaciuta. A mia madre invece non piaceva. Quando me ne andai, fece entrare nella stanza un’immagine della Madonna con una cornice scura. Sostituì la stampa dei corpi nudi con l’immagine sacra. Dopo la morte di mamma cercai per un po’ i corpi nudi, senza riuscire a trovarli. La Madonna comunque qualcuno l’aveva tolta, lasciando sulla parete una macchia di colore più chiaro.
Dietro l’anta dell’armadio c’erano i resti di figure a colori che avevo incollato. In una si leggeva il mio nome scritto a caratteri cubitali ed un mio ritratto buffo che avevo portato da un viaggio fatto a Roma. Qualcuno, negli anni della mia assenza (penso proprio sia stata mia madre) aveva cercato di cancellare il mio nome e della caricatura che mi aveva fatto il pittore a Piazza Navona era rimasta solo qualche traccia.
Da ragazzo ho trascorso pomeriggi interi a studiare nella mia cameretta e ad ascoltare la radio. A volte mi sdraiavo sul mio letto e guardavo il soffitto. Per non correre il rischio di essere disturbato, tante volte mi chiudevo a chiave facendo arrabbiare mia madre. Ma aveva ragione lei. Che motivo c’era di chiudersi in camera? 
Coi miei genitori andavo perfettamente d’accordo. Con mio padre non c’è mai stata una discussione. Mia madre forse qualche volta s’infuriava, ma era sempre per il mio bene che lo faceva. E in fondo ero io che avevo quasi sempre torto.
Mio padre parlava poco quando rientrava dal lavoro. Se mia madre era agitata lui faceva un sorrisetto e lei si arrabbiava di più. Ma mio padre non si arrabbiava mai né con lei né con me. Aiutava mia madre nelle cose di casa e a volte perfino cucinava. Quando vennero gli infermieri per trasportarla in ospedale, lui non volle vedere, anche se sapeva che non sarebbe ritornata. L’aveva già salutata mesi prima quando lei aveva perso il lume della ragione.
Sapeva molte cose mio padre, ma non me le ha mai raccontate. Forse pensava che non fossero importanti o forse che lo erano troppo per me. Io invece di lui e di mia madre molte cose non le so tuttora e alcune le ho scoperte solo negli ultimi tempi.
Ora so perfino perché e quando si sono sposati. So anche che mi hanno tanto voluto. Questo lo so, ma non so davvero perché.
Mia madre se n’era andata da quasi due anni. Un sabato pomeriggio mio padre, che visitavo sempre nel fine settimana, mi chiese di guardare in fondo all’armadio nella camera che per cinquant’anni aveva diviso con mia madre. C’era un’abito scuro ed una camicia e le scarpe lucidate, tutto già pronto. 
«Voglio quello quando me ne andrò io».
Non avevo motivo per dirgli di no. C’era anche qualcosa vicino alle scarpe. In un primo momento non mi ero accorto.
Era la stampa preziosa con le due figure nude molto eleganti. I due bellissimi corpi nudi danzanti, staccati dalla parete e sostituiti con l’immagine sacra.
«L’ha messo lì tua madre. Puoi fare quello che vuoi», disse mio padre. E poi non aggiunse altro.

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TRADUZIONI. SHAKESPEARE SONETTO 73

Quello che in me vedi è il tempo dell'anno In cui ingiallite foglie pendono dai rami e cadono rabbrividendo incontro al gelo nude rovine ove già cantavano gli uccelli. Quello che in me vedi è il crepuscolo del giorno Che ad occidente svanisce nella sera e piano piano la notte nera inghiotte ombra di morte in cui tutto si placa. Quello che in me vedi è il brillar del fuoco che tra le ceneri di gioventù giace come sul letto di morte in cui ha fine oggi consunta da ciò che la nutriva un dì. Questo di me tu vedi che l'amore tuo accresce Perché meglio tu possa amare chi lascerai tra poco. That time of year thou mayst in me behold,  When yellow leaves, or none, or few do hang  Upon those boughs which shake against the cold,  Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.  In me thou seest the twilight of such day,  As after sunset fadeth in the west, Which by and by black night doth take away, Death’s second self that seals up all in rest.  In me thou

Aquila di Lord Alfred Tennyson

Con artigli deformi la rupe afferra; Intima del sole su desolata terra ella si leva e l'azzurro mondo la rinserra. A lei s'inchina la superficie increspata; Dai suoi montani spalti ella scruta Ed è come la folgore precipitata. He clasps the crag with crooked hands; Close to the sun in lonely lands, Ringed with the azure world, he stands. The wrinkled sea beneath him crawls; He watches from his mountain walls, And like a thunderbolt he falls. ©trad.Bruno Martellone- Treviso, 3/3/2012

Shakespeare - Sonetto 35 (traduzione)

Per ciò che hai fatto non ti crucciare Le rose hanno spine, fango le fonti Eclissi e nubi coprono la luna e il sole Nella più dolce rosa un verme vive. Sbagliano tutti ma fu mio errore  difendere te frodando me stesso  Ora per scagionarti vado in rovina giustificando una colpa senza scuse. E poiché sono complice del tuo peccato sono ad un tempo tuo contraddittore E tuo avvocato e di me stesso accusatore E tanto in me duellano odio e amore Che contro la mia volontà faccio il palo alla dolce ladra che spietata mi deruba.