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L'ora estrema del comandante Palinuro


Unum pro multis dabitur caput (Eneide, V, 815)


La domenica mattina, quinto giorno dell’Insurrezione, tra il Brenta e il Piave la situazione è ancora confusa. La Linea Gotica ha ceduto di schianto, ma gli alleati non sono arrivati ancora. E i Tedeschi non si sono arresi. Ordinati, senza combattere, hanno lasciato ai partigiani Venezia, Vicenza, Treviso, ma non sono lontani. Stanno fuori dalle vie principali per non essere colpiti dall'alto. Hanno rabbia, paura, non si fidano. Hanno le armi. Alla prima resistenza bruciano i paesi, massacrano i civili innocenti. Aspettano solo il momento per risalire oltre le Alpi.
Anche Palinuro aspetta un segnale da giorni. Tutto è pronto per entrare in città. Gli uomini della Brigata hanno tutti un parente morto o deportato da vendicare. Quasi un anno fa, dopo i giorni maledetti dei rastrellamenti, l’hanno giurato. E' vicina l'ora che li guarderanno in faccia i fascisti assassini. Li prenderanno, li giudicheranno. E sarà nel nome della giustizia e del popolo italiano.
Il comando della Brigata è riunito nella vecchia casetta dei nonni, quasi una capanna col pavimento di terra battuta in mezzo ai campi. La mattinata è passata a spedire ordini alle squadre, che non si torca un capello ai prigionieri tedeschi. Armi e bracciali tricolori non bastano per tutti i contadini che vengono dai partigiani come fosse una festa.
A mezzogiorno qualcuno dice che là in fondo, all'incrocio colla Nazionale si sente baccano di carri armati americani che vien su da Treviso. Ancora un’ora o due e saranno a Castelfranco. Poi Bassano è a un tiro di sasso.
Palinuro ha capito che non verrà più nessun ordine. Anche don Fasan gli ha parlato chiaro l’altra sera. “Tu e i tuoi il vostro dovere l'avete fatto. Ma per il tuo bene, lascia stare Bassano”. Quello del prete è solo l'ultimo avvertimento. 

Palinuro non è mai stato tanto solo, nemmeno nei primi giorni della lotta. Allora il pericolo era più grande, ma almeno l'avevi davanti, non alle spalle. Poi gli arresti, i tradimenti, le divisioni. Cominciarono allora a dirgli che si doveva attendere, evitare lo scontro frontale, garantire l'ordine. Un trapasso senza violenza. A Palinuro quella nuova linea non era piaciuta. E quando gli avevano chiesto da che parte stavano i suoi, che era il momento di scegliere "La brigata è dei partigiani, non dei partiti” aveva risposto.
“La questione è più complicata” gli aveva detto duro poco tempo dopo Antenore, il capo della lotta a Castelfranco. “Tedeschi e fascisti hanno perso” aveva aggiunto, “ora si deve impedire che l’Italia cada dalla padella fascista alla brace comunista. Dillo ai tuoi amici del partito d’azione.” 
“Finchè dura la guerra io non ho partito” aveva risposto. “Diglielo tu ai tuoi amici democristiani”. Antenore era per lui come un fratello. Con poche armi nascoste nel fienile avevano cominciato insieme a resistere. Gli uomini amavano entrambi come eroi inseparabili.
Negli ultimi tempi, Palinuro aveva sentito crescere intorno un’oscura ostilità. A fine marzo il CLN regionale aveva deciso di mettere al comando di divisione Otello, improvvisamente ricomparso dopo mesi che tutti lo credevano in mano ai fascisti. Palinuro lo considerava solo un opportunista. Otello invidiava Palinuro, perché i partigiani l'avrebbero seguito ovunque e i contadini lo amavano. I due nemmeno si parlavano.
Quanto agli Inglesi, per diciassette volte avevano avvisato dei lanci e diciassette volte Palinuro aveva fatto uscire gli uomini di notte per niente, col rischio di farsi trovare dai Tedeschi. Alla diciottesima l'apparecchio alleato invece dei rifornimenti aveva scaricato una bomba facendo un bordello d'inferno. "Vi preghiamo sospendere lanci” aveva scritto alla Missione inglese.

Poi ci fu l'incontro nel Duomo di Castelfranco, dieci giorni prima dell'Insurrezione. Mercurio, suo amico d’infanzia era finito in mano alla Xma MAS ed il dottor Serpillo aveva fatto sapere tramite don Fasan che poteva fare qualcosa per liberarlo. Palinuro sapeva che non era un semplice impiegato del Fascio di Bassano, ma l'uomo di fiducia dei Tedeschi. Maestro d'inganni, tirava i fili di una vasta rete di spie e infiltrati. Era lui ad aver consegnato nelle mani del boia decine di patrioti. E adesso, a pochi giorni dalla resa dei conti, cercava il modo di salvarsi la pelle.
Entrando nella cappella il comandante aveva cercato la Pala del Giorgione, tante volte descritta nelle sue lezioni di storia dell'arte al Liceo. Il giovane in armi ed il santo ai piedi della Vergine in trono della Vergine si vedevano appena all’incerta luce delle candele. Alle sue spalle opache presenze nel buio.
“Perdonate professore la scelta del luogo” aveva detto una voce nasale, “ma vi so amante del bello, non meno che della nostra patria comune. Me l'ha detto una vostra gentile amica venuta ieri a farmi visita. Bellezza notevole. Quasi direi tizianesca”.
Palinuro capì la velata minaccia al più caro dei suoi affetti segreti. Un’altra ombra emergeva dal buio e con sorpresa aveva riconosciuto Mercurio in piedi a fianco del fascista, libero nella persona.
“Avrete capito” continuò Serpillo, “che non ho chiesto quest'incontro per un semplice scambio di prigionieri. Il tempo stringe ed ho da farvi una proposta anche a nome dei comuni amici”.
Il comandante taceva.
“Il destino ci ha costretto finora su opposti fronti, ma appena i tedeschi se ne andranno le nostre forze si dovranno unire. E' il solo modo per garantire l’ordine. Uomini come voi, comandante, sanno mettere da parte vecchi rancori, nell’interesse superiore della nazione.”
“I fascisti onesti, se ci sono, possono combattere i Tedeschi insieme ai partigiani” disse Palinuro, “poi vedremo. Ci saranno tribunali e chi si è macchiato di sangue innocente verrà giudicato secondo la legge”.
“Voi forse ignorate che da tempo già di fatto è operante un accordo” disse Serpillo, “chiedetelo ai vostri superiori. Quello che io vi sto offrendo, comandante, è piuttosto l'opportunità di non restare tragicamente solo in questo delicato, ma necessario passaggio politico.”
“Palinuro, ascoltalo” era la voce di Mercurio. “La situazione è cambiata. Dobbiamo unirci a loro. Forse tu pensi che mi abbiano costretto a parlarti così, ma ti sbagli. Anche don Fasan lo sa”.
Serpillo accese una torcia. “Lo vedete anche voi” disse, “il vostro amico non è prigioniero e sta meglio di me. Ora pensateci. Mi farete sapere.”
Palinuro affidò i suoi angosciosi presentimenti alla Vergine che tristemente impassibile continuava ad osservare tutto dall'alto del suo trono. 
Quella stessa notte cercò Antenore. “Tu sapevi” gli disse fissandolo negli occhi.
“Serpillo è bruciato” rispose senza abbassare lo sguardo “Troppe ne ha sulla coscienza per pensare di farla franca.”
“E tutto il resto?” chiese, “c'è davvero un patto? I nostri morti non avranno giustizia? Hanno dato il sangue, perché tutto come resti prima?”
“A te piace combattere contro i mulini a vento? Fa' pure” disse, “ma attento, Palinuro. Quando sarà il momento non avvicinarti coi tuoi a Castelfranco o a Bassano. Fin qui ti ho coperto ma se ti metti di traverso dovrai guardarti le spalle da solo. Hai capito?” 

Sono le tre del pomeriggio quando da Bassano vengono notizie. Otello in persona è sceso dal Grappa e si è preso la gloria. Ha tanti uomini che non si sono mai visti. Poi qualcuno arriva affannato dicendo che ci sono tedeschi sbandati alle Case dei Crotti, poco lontano dalla sede della Brigata. Gli uomini non vogliono che Palinuro vada. Qualcuno gli offre il suo parabello, ma il comandante parte solo e senz’armi. Dall’inizio della lotta non ne ha avuto bisogno. “I Tedeschi hanno più paura del mio cervello e dei cuori dei contadini” ha sempre detto. In vita sua non ha mai sparato ad un uomo.
Alle case dei Crotti gli viene incontro Kurt, il disertore austriaco passato quest'inverno coi partigiani. Trentalire è appostato dietro una siepe. Da giorni Palinuro ha in tasca una lettera firmata da una dozzina dei suoi uomini. Dicono che ci sono le prove che quel partigiano ruba e fa il doppio gioco. Ma non c'è tempo adesso per questo. Si vedrà dopo la liberazione. C'è anche il vice di Otello, Scipione, che fuma in disparte e lo saluta appena. Che ci fa qui, lontano dalla sua zona?
Nella stalla ci sono una ventina di soldati tedeschi. Un sergente e un soldato ferito alla spalla escono per parlamentare. Hanno bandiera bianca e quando vedono il comandante colla coccarda tricolore sul petto posano le armi a terra. Palinuro fa qualche passo porgendo un pacchetto di sigarette ai tedeschi. Vogliono solo arrendersi. Mentre Kurt traduce, sul viso del sergente un terrore improvviso. “Nein sparare! Nein!” E’ un attimo. I due tedeschi si girano e fuggono con le mani alzate, ma restano fulminati da una raffica dopo pochi passi. Al suo fianco cade anche Kurt con un grido. Palinuro gira di scatto la testa e vede Trentalire alle sue spalle che prende la mira steso sul prato. Un ultimo sparo isolato. “Sono colpito” pensa, e cade in avanti colla faccia a terra. Dopo un po’ sente che lo rovesciano sulla schiena trascinandolo una decina di metri più in là. Frugano a lungo nelle sue tasche. Apre gli occhi, ma non vede nulla. Riconosce le voci. “Perché?” mormora. Finito il lavoro gli sciacalli si allontanano.

Lontano salve di cannone e nei paesi intorno campane a festa che salutano i liberatori. Palinuro sente ora su di sé il viso di un ragazzo partigiano che imbraccia lo sten come a volerlo difendere. Occhi troppo seri per la sua età. Qualcun altro si china sopra di lui e con un gesto della mano sembra volerlo consolare. Poi vede il volto triste di una giovane donna, forse una contadina che stringe al collo un bimbo addormentato. Somiglia alla Vergine nel duomo di Castelfranco. Poi nulla più, tranne il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che trascorrono lentamente. Che silenzio! Che quiete! Sì, tutto è vuoto, tutto è inganno, tranne questo cielo infinito. Pensa così Palinuro, mentre le nuvole all’orizzonte si dissolvono liberando allo sguardo l’azzurro profilo del Grappa.

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TRADUZIONI. SHAKESPEARE SONETTO 73

Quello che in me vedi è il tempo dell'anno In cui ingiallite foglie pendono dai rami e cadono rabbrividendo incontro al gelo nude rovine ove già cantavano gli uccelli. Quello che in me vedi è il crepuscolo del giorno Che ad occidente svanisce nella sera e piano piano la notte nera inghiotte ombra di morte in cui tutto si placa. Quello che in me vedi è il brillar del fuoco che tra le ceneri di gioventù giace come sul letto di morte in cui ha fine oggi consunta da ciò che la nutriva un dì. Questo di me tu vedi che l'amore tuo accresce Perché meglio tu possa amare chi lascerai tra poco. That time of year thou mayst in me behold,  When yellow leaves, or none, or few do hang  Upon those boughs which shake against the cold,  Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.  In me thou seest the twilight of such day,  As after sunset fadeth in the west, Which by and by black night doth take away, Death’s second self that seals up all in rest.  In me thou

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