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Desafinado

Una volta un bambino molto piccolo fu portato dai nonni a sentire l’opera. In teatro c’era il Barbiere di Rossini e cantava la grande Valentini Terrani. Per il piccolo fu un’emozione grande anche se non capiva perchè. Forse da allora nacque in lui il desiderio di diventare da grande un cantante lirico. 
Col tempo, il disco dei Tre tenori fu preferito ai cartoni animati e poi alla playstation. A dieci anni conosceva molte arie famose e le trame dei melodrammi più rari. Bambine e bambini della sua età sulle prime lo consideravano un po’ strano, soprattutto quando li costringeva a chiamarsi l’un l’altro con i nomi dei personaggi delle opere liriche. Poi si abituavano al gioco senza farci più caso. 
A volte si comportava come su un palcoscenico. Ma era la vita degli altri ad essere strana per lui.
Il bambino cantava. Aveva una voce impostata come quella dei veri tenori. Un vocione assurdo per la sua età. Cantando si gonfiava e sudava diventando rosso rosso. Si vedeva che ce la metteva tutta. Dava sempre l’impressione di soffrire un po’ e questo lo faceva ancor più somigliare ad un piccolo vero cantante. 
Ciò che stupiva tutti era soprattutto la potenza della voce resa ancora più evidente dal fisico poco sviluppato anche per un bambino della sua età. 
Purtroppo quando doveva combinarsi con l’accompagnamento di altre voci o di una base strumentale, il bambino stonava tragicamente. Cantava sistematicamente un tono sopra o magari mezzo tono sotto dell’accompagnamento e dopo un po’ si perdeva nel tentativo di riallinearsi. La musica che aveva dentro di sé andava sempre in una direzione diversa rispetto ai suoni che sentiva fuori di sé. Succedeva anche quando cercava di unirsi al canto spensierato della mamma che lavava i piatti, oppure quando il papà metteva un disco o accendeva la radio.
Era così stonato che lui per primo se ne rendeva conto. Allora si sforzava alzando il volume della voce. Ma l’effetto era ancora più straziante.
Riusciva a cantare solo se intorno lui c’era silenzio.
Mamma e papà non sapevano nulla di canto lirico, ma soffrivano nel vedere la disperazione del figlio. Si convinsero che fosse un po’ colpa loro, che non avevano saputo dargli un’educazione musicale. Accompagnarono così il piccolo tenore, da un tenore vero, anche se lontano ormai da anni dai teatri d’opera.
Il cantante una volta lo aveva sentito per caso intonare “La donna è mobile”. Gli era sembrato strano, così piccolo, ma aveva dovuto riconoscere che aveva una voce dal volume eccezionale per la sua età. Ed era intonato, solo calava un poco quando doveva prendere gli acuti. Lo aveva commosso soprattutto la passione che il bambino aveva manifestato e le mille domande che gli aveva fatto sul mondo dell’opera. 
Il piccolo tenore aveva cantato senza alcun accompagnamento e per questo il tenore adulto non si era accorto di nulla. Quando invece il maestro nel suo salotto di casa accennò a un accordo di do sul pianoforte, per fargli provare un vocalizzo semplice semplice, rimase atterrito. Era stonatissimo. Una cosa impossibile da sopportare. 
Il maestro provò e riprovò gli accordi, ma il bambino non azzeccava una note. Più il maestro pestava sulla tastiera, più il bambino stonava, alzando ogni volta di più il volume della voce, strillando e dandoci dentro con il fiato, fino quasi a scoppiare. Desolato il maestro rinunciò scuotendo la testa. Allora il piccolo tenore si mise a piangere in silenzio.
Tornando a casa, avvilito, il bambino decise che da allora avrebbe cantato senza accompagnamento e da solo, senza nessuno intorno. Solo i genitori e qualche vicino di casa lo riusciva ad ascoltare, ma senza farsi vedere.
Il bambino crebbe e divenne un giovane e poi un adulto. Con la muta, la sua voce era diventata ancora più bella. Negli acuti era come l’argento e scendendo diventava velluto ed era piena di sentimento virile. Nelle note più gravi s’ispessiva ed era la voce di un uomo che vive un segreto dolore. Aveva rinunciato per sempre ad intrecciarla con altri suoni per paura di stonare. Ma per i pochi che lo sapevano, la sua era una voce perfettamente intonata.

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TRADUZIONI. SHAKESPEARE SONETTO 73

Quello che in me vedi è il tempo dell'anno In cui ingiallite foglie pendono dai rami e cadono rabbrividendo incontro al gelo nude rovine ove già cantavano gli uccelli. Quello che in me vedi è il crepuscolo del giorno Che ad occidente svanisce nella sera e piano piano la notte nera inghiotte ombra di morte in cui tutto si placa. Quello che in me vedi è il brillar del fuoco che tra le ceneri di gioventù giace come sul letto di morte in cui ha fine oggi consunta da ciò che la nutriva un dì. Questo di me tu vedi che l'amore tuo accresce Perché meglio tu possa amare chi lascerai tra poco. That time of year thou mayst in me behold,  When yellow leaves, or none, or few do hang  Upon those boughs which shake against the cold,  Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang.  In me thou seest the twilight of such day,  As after sunset fadeth in the west, Which by and by black night doth take away, Death’s second self that seals up all in rest.  In me thou

Aquila di Lord Alfred Tennyson

Con artigli deformi la rupe afferra; Intima del sole su desolata terra ella si leva e l'azzurro mondo la rinserra. A lei s'inchina la superficie increspata; Dai suoi montani spalti ella scruta Ed è come la folgore precipitata. He clasps the crag with crooked hands; Close to the sun in lonely lands, Ringed with the azure world, he stands. The wrinkled sea beneath him crawls; He watches from his mountain walls, And like a thunderbolt he falls. ©trad.Bruno Martellone- Treviso, 3/3/2012

Shakespeare - Sonetto 35 (traduzione)

Per ciò che hai fatto non ti crucciare Le rose hanno spine, fango le fonti Eclissi e nubi coprono la luna e il sole Nella più dolce rosa un verme vive. Sbagliano tutti ma fu mio errore  difendere te frodando me stesso  Ora per scagionarti vado in rovina giustificando una colpa senza scuse. E poiché sono complice del tuo peccato sono ad un tempo tuo contraddittore E tuo avvocato e di me stesso accusatore E tanto in me duellano odio e amore Che contro la mia volontà faccio il palo alla dolce ladra che spietata mi deruba.